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L'Inghilterra oltre Londra

Storia di Jacopo

BI Piacenza
Postato il: 04/09/19
Tempo di lettura: 10 minuti, 39 secondi


L’Inghilterra oltre Londra: York

 Quando si decide una vacanza all’estero, si sa, si opta spesso e volentieri per la capitale, o per la città che più di altre, nel nostro immaginario, rappresenta la cultura del paese che stiamo per visitare. Non sono infrequenti i viaggi di nozze che hanno come prima, e a volte unica, tappa New York (mi rendo conto che il mio primo esempio è in realtà un’eccezione, ma New York, pur non essendo la capitale, è ciò che erroneamente affianchiamo al concetto di “americanità”). La Francia è in primo luogo Parigi (in questo caso, invece, ragionamento non del tutto campato in aria, conoscendo lo snobismo dei parigini verso tutto ciò che è “provincia”). Il Giappone è Tokyo.

L’Inghilterra è Londra. Prima di procedere, ci tengo a precisare che, con Inghilterra, intendo il Regno Unito nella sua interezza, ma in italiano è ormai consuetudine usare il termine Inghilterra per riferirsi a tutta la Gran Bretagna. Cum bona pace.

 

E Londra sia. Io stesso, ormai venticinque anni fa, mi vidi offerta Londra come prima meta di un viaggio che ci avrebbe portati fino alle Highlands scozzesi.

Londra rappresenta un sogno per molti appartenenti alla mia generazione, primi anni ‘80. Forse perché abbiamo ereditato dai nostri genitori il gene degli anni ‘60, quello dei Beatles, di Alberto Sordi e Fumo di Londra e della Swinging London, il termine che è arrivato ad indicare la società e la cultura musicale dell’Inghilterra del decennio 1960-70.

 

Ma cosa vuol dire visitare una capitale?

Vuol dire innanzitutto visitarne l’aeroporto. Sebbene alcune capitali europee siano raggiungibili in auto, l’aereo è il mezzo prediletto, per ovvi motivi (primo fra tutti, il parcheggio). E cosa vuol dire visitare l’aeroporto di una capitale? 

 

“Raggiunti in aereo, senza un minimo di sforzo nell’avvicinarli, tutti i posti diventano simili: semplici mete separate fra di loro solo da qualche ora di volo. Le frontiere, in realtà segnate dalla natura e dalla storia e radicate nella coscienza dei popoli che ci vivono dentro, perdono valore, diventano inesistenti per chi arriva e parte dalle bolle ad aria condizionata degli aeroporti, dove il “confine” è un poliziotto davanti allo schermo di un computer, dove l’impatto con il nuovo è quello con il nastro che distribuisce i bagagli, dove la commozione di un addio viene distratta dalla bramosia del passaggio obbligato attraverso il free duty shop, ormai uguale dovunque.

Le navi si avvicinano ai paesi entrando con lento pudore nelle bocche dei loro fiumi; i porti lontani tornano ad essere delle agognate destinazioni, ognuna con la sua faccia, ognuna con il suo odore. Quel che un tempo si chiamavano i terreni d’aviazione erano anche loro un po’ così. Oggi non più. Gli aeroporti, falsi come i messaggi pubblicitari, isole di relativa perfezione anche nello sfacelo dei paesi in cui si trovano, si assomigliano ormai tutti; tutti parlano nello stesso linguaggio internazionale che dà a ciascuno l’impressione di essere arrivato a casa. Invece si è solo arrivati in una qualche periferia da cui bisogna ripartire, in autobus o in taxi, per un centro che è sempre lontanissimo.

Le stazioni invece no, sono vere, sono specchi delle città nel cui cuore sono piantate. Le stazioni stanno vicine alle cattedrali, alle moschee, alle pagode o ai mausolei. Una volta arrivati lì, si è arrivati davvero”.

 

Queste parole che vorrei fossero mie sono in realtà del mio autore preferito, Tiziano Terzani, estratte da quel capolavoro che è “Un indovino mi disse” (Edizioni TEA, Milano, 1995. Il brano citato si trova a pagina 13).

 

La capitale è innanzitutto l’aeroporto, un posto che potrebbe essere dovunque, dove l’unico indizio è dato dalla lingua in cui è scritto il cartello che indica i bagni e la dogana.

 

Il centro di una capitale è una “sovra-rappresentazione” del paese in cui si trova. Chi conosce gli Stati Uniti sa che essi non sono Times Square. Anche Londra ha la sua Times Square (ma, essendo in Europa, è più piccola), Piccadilly Circus, che di certo non è l’Inghilterra, dato che gli unici autoctoni sono probabilmente i proprietari dei ristoranti e dei negozi di souvenir messi lì per adescare turisti che, pur essendo magari esperti viaggiatori e tutt’altro che sprovveduti, finiscono per pagare 4 sterline per un espresso doppio, solo perché non hanno altra scelta.

 

Nei centri delle capitali tutto è esagerato, le mille sfaccettature di un paese e della sua tradizione sono il prodotto di un disegno fatto con il pantografo. Ogni cosa ostenta appartenenza culturale. Se la capitale avesse un cervello, si potrebbe quasi dire che, avendo paura di fare brutta figura davanti al turista pronto a giudicare, stia cercando di mettersi in mostra, sbandierando tutte le sue qualità ed il suo essere così inglese, o americano, o francese. 

 

Detto ciò, io non vivo in una capitale. 

Vivo tuttavia nella seconda (o terza, a seconda del sondaggio) meta turistica dell’Inghilterra (nel senso di Regno Unito) dopo Londra.

Ma la differenza è che, a York, non c’è l’aeroporto. C’è un aeroporto a Leeds, scomodo per chi viaggia dall’Italia, e uno a Manchester, a un’ora e quarantacinque minuti di treno.

 

Ciò, va da sé, significa che il primo approccio alla città avviene tramite la stazione dei treni, uno dei più grandi progetti di ingegneria dell’epoca vittoriana, distante dieci minuti a piedi dalla Minster, una delle più grandi cattedrali dell’Europa Settentrionale.

 

 


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Breve storia di York

 

York fu fondata dai romani nel 71 d.C, al tempo di Vespasiano. A quell’epoca si chiamava Eboracum, toponimo di origine celtica (eburos), che indicava il tasso, albero che tutt’oggi domina l’area in cui i romani costruirono la loro prima fortezza legionaria, ancora presente e visitabile e che gli inglesi chiamano Multangular Tower.

York è la città in cui, nel 306, Costantino venne proclamato imperatore. Grandi imprese lo attendevano: la creazione di Costantinopoli e l’editto di Milano, per citarne un paio. Divenne persino Santo per la Chiesa Ortodossa. Abbandonò quindi la città, per non rimetterci mai più piede, ma viene ricordato tramite una statua posta nella piazza della Cattedrale (la statua in realtà rappresentava Ercole, ma gli amministratori dell’epoca decisero che, dato che nessuno conosceva né il volto di Ercole né quello dell’imperatore, si poteva benissimo farla passare per Costantino).

Nell’866 arrivarono nell’isola i vichinghi che, pochi decenni dopo con Ragnarsson (rappresentato dalla serie Vikings) fondarono il regno di Jorvik, toponimo che dava il nome anche alla capitale. Con i secoli, Jorvik mutò il nome in York.

 

La Guerra delle Due Rose (1455-1485) vide la disputa per la corona d’Inghilterra tra il Casato di York e quello dei Lancaster.

 

Nel 1570 fu il luogo di nascita di Guy Fawkes, il cospiratore che voleva far saltare in aria il Parlamento nella storica “congiura delle polveri” (quella che fu la sua casa natale è oggi un pub hotel che sfrutta esageratamente il passato dell’edificio) e la cui morte viene ricordata ogni 5 di novembre (non tanto perché è stato un martire del popolo oppresso, ma per ricordare ai sudditi quello che capita a chi vuole ribaltare l’establishment. Nota interessante. Se sei contro i cospiratori, supporti la Monarchia. Questo concetto è rappresentato da quella che, mi è stato detto, essere la più lunga parola del dizionario inglese: antidisestablishmentarianism, parola che, tramite la doppia negazione anti e dis, indica l’essere contro chi è contro la Monarchia).

 

Con la guerra civile inglese (1642-1651), York divenne roccaforte del re Charles I e dei realisti.

 

Se iniziate a farci caso, noterete che in ogni film o libro sulla storia d’Inghilterra, York (o Eboracum, o Jorvik) è sempre presente, perché è una tappa imprescindibile per qualsiasi storia, non solo del Regno Unito, ma di tutto il nord Europa.

 

 


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Perché York?

 

York oggi è considerata la capitale culturale di Inghilterra.

I motivi sono ovvi per qualsiasi turista. L’unicità di York è protetta dalle mura in pietra che circondano il centro storico da oltre 800 anni. È l'unico posto dove sia possibile vedere una fortezza romana, le rovine di un'abbazia ed un osservatorio del 18o secolo all'interno dello stesso giardino botanico. E poi The Shambles, la famosa strada che i fan di Harry Potter conoscono come ciò che ispirò Diagon Alley, la via dei maghi.

 

 


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Nella piazza che ospita la galleria d’arte, Exhibition Square, abbiamo la statua di un pittore di epoca vittoriana, William Etty. Considerato non un granché come pittore dalla critica (in realtà devo dire che, avendo avuto l’occasione di vedere un suo quadro, mi è parso proprio ben fatto. Ma io non sono la critica), è ricordato, più che per le sue opere, tanto per aver impedito al Parlamento di abbattere le meravigliose mura per far posto alla nascente ferrovia. È grazie a lui che oggi si possono ammirare le mura, che danno la possibilità di percorrere tutto il perimetro della città a piedi. Leeds, città limitrofa, decise, più o meno nello stesso periodo, che le antiche mura erano inutili. Vennero quindi abbattute e, con esse, venne abbattuta una parte significativa della storia della città. Adesso gli abitanti di Leeds si mangiano le mani.

 

 

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Un giro a York è un giro nell’Inghilterra più vera e autentica, immersa nella campagna inglese così ben rappresentata dalla narrativa romantica (Jane Austen, George Byron, le sorelle Brontë). Dove, se si decidesse di dipingere un dipinto, bisognerebbe procurarsi una buona scorta di verde e di sfumature di verde. E dove, il suddetto paesaggio dipinto potrebbe benissimo passare per una fotografia, poiché il paesaggio stesso sembra - rischio di cadere nel cliché - un quadro. Avete presente quando Mary Poppins salta dentro il quadro del suo amico spazzacamino? Non è molto lontano dai magnifici colori che vedo ogni volta che si va in giro per la campagna.

 

 


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Conclusione

 

York non è la capitale ufficiale, ma la cultura che, con garbo, ricopre le strade, gli edifici ed i caffè, come il velo ricopre il capo della Vergine Maria nella pietà di Michelangelo, la rendono la perfetta rappresentante dell’Inghilterra, senza esagerazioni ed iperboli culturali messe come esca per i turisti.

 

Mi piacerebbe che, anche il turista che decidesse di avventurarsi in treno fino a quella che duemila anni fa era la frontiera settentrionale dell’Impero Romano, abbandonasse i parallelepipedi “ad aria condizionata” che sono le anonime sedi delle catene di bar e ristoranti come Starbucks, Caffè Nero o Costa Coffee, per dare una possibilità alle miriadi di piccole attività locali, che danno un‘esperienza più autentica, umana e un caffè decisamente migliore.

 

Dopo aver sperimentato cosa significa vivere nell’Inghilterra più vera, mai e poi mai potrei trasferirmi nella capitale Londra. Ho un età, 36 anni, in cui il fascino per lo hustle and bustle (per gli studenti che stanno leggendo, è un idiom da B1) è svanito. È svanito il desiderio di dover prendere la metropolitana (che, se non abiti a Milano ma a Londra, ti costa un terzo dello stipendio) ed avere l’occasione di immergermi nella cultura urbana più gritty ma con il Wi-Fi ovunque, con una tazza di plastica in mano ricolma di caffè bollente o, meglio, di Yorkshire Tea.

È comparso il desiderio di avere poco inquinamento e tanti parchi, un giardino, una qualità della vita più umana, e prezzi più abbordabili.

 

Raccomando quindi, a studenti adulti e non (in qual caso mi rivolgo anche ai genitori) una gita di almeno tre giorni a York. Basta prendere un volo per Manchester, e poi un bel treno della Transpennine Express per vedere quella che, a detta non tanto mia ma degli inglesi, è la vera e più pura parte dell’Inghilterra. Intesa un po’ come vi piace di più.






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